Inedito

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Sperando che l’inedito della settimana scorsa vi sia piaciuto, questa settimana vi proponiamo un altro racconto che non è ancora stato pubblicato. S’intitola Strano Pensiero, l’autore è Federico Pagnotti. Il protagonista Enrico, durante una passeggiata sul lungomare della bellissima Napoli, incontra una donna ma qualcosa non torna e così l’uomo vive per un po’ nel dubbio se si tratti semplicemente della proiezione di un suo pensiero o di una donna in carne ed ossa, richiamando un argomento, quello del dissidio tra pensiero e materia, che da sempre affascina l’uomo. Segue una breve recensione. Come consuetudine, v’invitiamo a farci sapere cosa ne pensate anche se non è facile ottenere un vostro parere. Malgrado ciò, noi continuiamo ad esortarvi ad interagire e se qualcuno vuole condividere con noi una sua creatura letteraria, siamo liete di accogliervi.

Prima di chiudere, naturalmente, non dimentichiamo il lato più godereccio vale a dire il cibo. Federico Pagnotti nel suo racconto ci descrive come preparare una squisita zuppa di pesce, proprio come la fanno a Napoli. Avremmo voluto riproporvela fatta da noi, come sempre, ma trovare gli ingredienti (le varie specie di pesce) si è rivelato molto più difficile di quanto pensassimo a causa delle cattive condizioni del tempo, perché ovviamente il pesce deve essere fresco. Vi dovrete “accontentare” di un’immagine di repertorio. Appena possibile, ci faremo perdonare cucinandovi un piatto assolutamente originale. Intanto provatela voi e fateci sapere che ne pensate.

Buona lettura e buon appetito!

Strano pensiero

Questa mattina il sole splende nel cielo limpido. Arrivato sul lungomare non resisto e chiedo al mio occasionale accompagnatore (un amico che mi ha raccolto alla fermata del bus) di farmi scendere, avrei fatto il resto del percorso a piedi.

All’altezza del Borgo Marinaro, dove si staglia la mole di Castel dell’Ovo, mi fermo e mi metto ad osservare il lento movimento del mare e i gabbiani nelle loro giravolte gioiose. Nonostante l’ora e il traffico intenso, stranamente il lungo marciapiedi è vuoto. Sono il solo abitante di questa meraviglia, anzi no. C’è una figura che viene nella mia direzione, una donna che come me sembra sola nel mondo.

“Buongiorno” – dico.

 Mi guarda, come scossa da chissà quali pensieri, ma non risponde. Approfitto dell’esitazione per dirle:

“Un buongiorno non si nega a nessuno”.

Sorride, poi: “buongiorno”.  Il suono di quella voce mi provoca una strana sensazione.

“Mi dica qualcosa, la prego” –

“Perché?” –

“Ho bisogno di sentire la sua voce” –

“Se non la smette sparisco” –

 “Vuol dire che va via?” –

 “No, ho detto proprio che sparisco”–

 “Ma come?” –

“Come sparisce un pensiero dalla mente” –

“Il pensiero di chi?” –

 E’ evidente che sono frastornato, per cui sorride divertita.

 “Il tuo pensiero, Enrico” –

A questo punto non svengo per puro miracolo… “ma, come…” – balbetto.

 “Te l’ho detto, sono un tuo pensiero” ribatte lei ancora sorridendo.

Mi giro, scendo le scale che portano alla piccola spiaggia sotto la sede stradale e mi siedo su una panchina di pietra. Lei mi segue e si siede accanto.

 “Non hai avuto paura che me ne andassi?” –

“Sei o non sei un mio pensiero? E allora decido io quando vai e quando resti” –

 “Non esserne così sicuro, i pensieri vanno e vengono” –

 “Ma questo è particolare…” –

 Intanto con la scarpa smuovo un piccolo sasso, no è una conchiglia, la pulisco bene togliendo tutta la sabbia. Poi mi strappo una ciglia, la metto nel guscio e chiedo a lei di fare altrettanto. Poi lo depongo delicatamente sul pelo dell’acqua. Restiamo a lungo a guardare l’ondeggiante precaria navicella che si dirige verso il largo, spinta da un soffio di brezza.

“Che significa?” – mi domanda.

 “Sei un mio pensiero, dovresti saperlo, mando una parte di me dove tutto intero non posso andare, un’onda più grande rovescerà il guscio e io andrò a vivere negli abissi del mare, dove tutto è più bello e più pulito…” – “Non tu, la tua ciglia, anzi le nostre ciglia. Ecco, ma perché anche la mia?” –

 “Tu pensa: se un fulmine la colpisce e con la sua potenza scatena una reazione che unisce le nostre cellule alle gocce del mare e da quest’unione nascono due creature marine che nuotano felici lontano da questo mondo…”

A questo punto vengo distratto da una banda di ragazzini con lo zaino a tracolla che passa urlando, hanno marinato la scuola e si godono la bella giornata.  Quando mi giro, lei non c’è più. Mi alzo e guardo verso l’orizzonte, il suono di quella voce conosciuta mi gira ancora per la testa.

Lentamente tolgo la sabbia dalle scarpe.

Decido di tornare a casa a piedi, ancora assorto, quando mi sento apostrofare: “Dotto’, che è? Ve veco nu’ poco strano stammatina”. Mi giro e vedo Salvatore, il mio pescivendolo di fiducia che, mollemente appoggiato allo stipite del negozio, mi guarda sornione.

“Ah, Salvato’, si tu”

“Trasite, dottò, che avite bisogno di una botta di vita”

“E sarebbero i pisci tuoi…..?

“Guardate che frischezza. A chest’ora è rimasto poco, ma tutto ‘e primma qualità”.

Mi fermo a osservare quelle meraviglie, quasi quasi…..

“Dotto’ a che state pensando?”

“No, Salvato’, nunsto pensando, per oggi basta pensieri…!  Me pare che ce sta abbastanza pe’ nazuppetella”

“Scegliete”

“Allora,miettemedint’ocuoppo: nu’ purpetiell, na’ seccia, duie calamaretti, navranca e lupine e cozzeche, chella bella tracina, nu’ cuocciopiccerillo e duie gamberi”.

Mi piace sempre intrattenermi nel mio bel dialetto con Salvatore o con Franco l’ortolano o con altri. E poi sembra che quando gli chiedi la merce nella lingua madre ti servono meglio: vuoi mettere la differenza fra “Franco un bel chilo di pesche” e “Francu’ nu’ belluchilò ‘e persechellecomm’ sai tu”.

Tornato a casa, poso il pacco sul lavello e vado a cambiarmi.  Poi metto il grembiule e mi preparo per la cerimonia.

In una grossa padella col bordo alto metto un aglio a imbiondire in un po’ d’olio, una costa di sedani a tocchetti, mezza cipolla rossa tagliata a velo e un peperoncino. Dopo un po’ tolgo l’aglio, lascio ancora appassire un po’ la cipolla epoi ci mettoil polipetto, la seppia e i calamaretti ben puliti e tagliati.  Dopo pochi minuti, non appena i cefalopodi sono imbionditi, aggiungo la tracina. Verso un bicchiere di vino bianco secco, faccio evaporare l’alcool che non va d’accordo con i pomodori e aggiungo un quarto di passata eun pugno di ciliegini spaccati a metà e lascio a fuoco lento per 15 minuti. A questo punto inserisco il cuoccio che è più delicato e deve stare di meno sul fuoco. Faccio cuocere ancora per dieci minuti e aggiungo i gamberi, aggiusto di sale e copro il tutto, aspetto ancora cinque minuti e spengo il gas.

A parte ho già messo in una pentola i mitili ben puliti, giusto il tempo di farli aprire. Tolgo i gusci, metto un’ombra di pepe nero e verso il contenuto nel padellone insieme al resto, spolverando con una manciata di prezzemolo ben tritato.

Mentre mi appresto a preparare la tavola, già eccitato per la leccornia che mi aspetta, suona il campanello.

Chi sarà mai, penso contrariato.

Apro e … lei mi sorride: “Non ti sembra che manchi qualcosa?” – esordisce brandendo una bottiglia di Falanghina – “per innaffiare nel modo migliore la tua zuppa di pesce?”

Entra e va verso la cucina, guidata dall’inebriante profumo.

“Dov’è il pane?” – Domanda, senza mai abbandonare quel suo affascinante sorriso.

Apro la madia, senza riuscire a parlare e prendo il pane.

“Bene” – fa soddisfatta – “pane casereccio di un paio di giorni, è quello che ci vuole”.

Con perizia ne affetta quattro fette tutte perfettamente uguali e le mette in forno con il grill a 220 gradi, appena pronte vi strofina sopra un aglio.

Non parlo, mi sembro Totò nello sketch in cui dice “voglio vedere questo dove vuole arrivare, e che so’ Pasquale io!”

Ci sediamo a tavola, metto due fette di pane tostato in ogni terrina e lei cidistribuisce sopra in parti uguali le varie specie di pesce, irrorando poi il tutto con abbondante sugo.

Verso la Falanghina nei calici, beviamo e mangiamo in silenzio, solo qualche mugolio di piacere.

Dopo il caffè, prendo il vassoio con il limoncello fatto da me con i limoni di Sorrento e ci sediamo sul divano. Si allunga verso di me e mi bacia delicatamente sulla guancia, all’angolo della bocca.

“Allora sei vera, non sei un pensiero? Chi sei?  Non ti avevo mai vista, ma mi sembra di conoscere la tua voce.”

Invece di rispondermi, mi domanda: “Quanti libri hai pubblicato?”

“Uno. Tre anni fa. Ma…”

“Chi era il tuo contatto con l’editore?”

“Paola, Paola Sereni!” – esclamo quasi urlando.

“Già, ci siamo sentiti solo per telefono e io, dopo aver sentito la tua voce e aver letto il tuo libro, avevo una voglia matta di conoscerti. Mi trovo a Napoli per lavoro e quando ti ho visto tutto solo sul lungomare non mi sembrava vero”.

“Come hai fatto a riconoscermi se non ci siamo mai incontrati?”

“Per scegliere la terza di copertina, mi hai mandato una serie di foto…”

“Ah, già, ma come…?”

“…Sono arrivata a casa tua? Ti ho seguito”.

A questo punto cade fra noi un lungo silenzio. Ci guardiamosenza più riuscire a parlare.

Poi Paola si guarda intorno: “E’ bella la tua casa, vivi solo?”

“Si”

“Perché?”

“Perché il mio ‘pensiero’ non si era ancora materializzato!”

strano pensiero

Un dissidio vecchio quanto l’uomo

Il racconto di Federico Pagnotti può essere diviso in due parti che riflettono quella dicotomia tra pensiero e materia che, in forme e contenuti differenti, ha interessato religione e filosofia. La materializzazione del pensiero di Enrico suppone una sua esistenza a priori, dall’evocazione  innatista, che in un giorno qualsiasi, si manifesta davanti ai suoi occhi nelle vesti di una donna. Ignorandone il motivo, Enrico si sente attratto da una perfetta sconosciuta di cui ha un impellente bisogno di sentire la voce. I sensi prendono il sopravvento sul pensiero che è muto, trasparente, impercettibile. E chi più di una donna può sollecitare i sensi, acuirli, renderli irresistibili. Ma nella prima parte la convinzione che quella donna sia solo la proiezione della sua mente è forte, l’autore indugia, rifugiandosi nel pensiero e  ipotizzando di mondi ed esseri materialmente inesistenti. Quando la donna scompare però, Enrico cessa di pensare e un percorso inverso ha inizio. I sensi, l’esperienza, prevalgono in un’apoteosi materialistica che tocca il culmine nella descrizione del piatto a base di pesce che mangerà quel giorno e che segna uno strappo quasi traumatico con la prima parte del racconto. E quando la donna si presenta di nuovo, questa volta bussando alla sua porta e gli rivela la sua vera identità, il pensiero torna a prevalere, affermando la sua preesistenza sulla materia. Enrico inconsapevolmente aspettava quella donna, da sempre un’idea. Quante volte ci hanno chiesto di descrivere la nostra donna o uomo ideale, un’immagine che esiste solo nella mente. Domanda all’apparenza banale ma che ad uno sguardo indagatore rivela quel dissidio tra innatismo e materialismo, su cui ancora oggi filosofi, linguisti, scienziati dibattono. Federico Pagnotti attraverso una storia di tutti i giorni, ha affrontato un argomento dall’inevitabile richiamo filosofico, in cui echi della religione cristiana e non solo, rimbombano nell’atavico conflitto, spesso fonte di peccato, tra anima e corpo. Come non si è riuscito ancora a stabilire se è nato prima l’uovo o la gallina, allo stesso modo è complicato chiarire chi tra pensiero  e materia preceda l’altro. Unica certezza è la loro imprescindibilità.

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