Come si fa a non raccontare il dolore, nonostante sia una condizione quasi permanente nella vita di chi sta narrando? Anzi, riformulo la domanda: come si fa a raccontare il dolore avendo cura di preservare i sentimenti del lettore, che non può che trarre divertimento e consolazione da un romanzo che ad un prima lettura potrebbe risultare leggero? Natalia Ginzburg riesce in entrambi i casi, non raccontando il dolore, ma isolandolo, lasciando che sia un elemento di disturbo senza mai compromettere la rilassante narrazione che, agli occhi del lettore, si configura come una strada liscia, dall’asfalto appena rifatto, priva di buche. Eppure quelle buche ci sono e sono frequenti: lo scoppio della guerra, la persecuzione, la fuga di Mario, uno dei cinque fratelli, dall’Italia dove a lungo non tornerà, l’incarcerazione del padre, la morte del marito, e quella di Cesare Pavese, grande amico della Ginzburg. Padri, fratelli, madri, amici, Lessico famigliare è il racconto omodiegetico di una famiglia, quella della scrittrice, che affida alla lingua la testimonianza della sua gente. Natalia non vuole raccontare i grandi avvenimenti, in particolare quelli negativi, che hanno sconvolto la vita della sua famiglia; altri sono gli strumenti a cui fa ricorso e che conducono ad un exploit di comicità: la distrazione e la smentita. Natalia Ginzburg sceglie consapevolmente (o forse le viene istintivo) ma certamente con coscienza, di essere distratta, disgiunta, rispetto agli eventi tragici ed importanti che hanno coinvolto se stessa ed i suoi cari, la sua non è fintotontaggine. Inoltre, la scelta di ignorare le vicende familiari più eclatanti è in netta contrapposizione con una letteratura che pullula di saghe parentali di cui il lettore ha conosciuto più che la fisionomia ed i tratti distintivi, i travagli, sullo sfondo di ingombranti avvenimenti storici. La quotidianità, l’intimità, il linguaggio che costituiscono poi l’essenza di una famiglia, quello che non è visibile allo sguardo di un estraneo, mancano.
Distrazione che si tramuta in grande spirito di osservazione attraverso l’impeccabile ricostruzione dei dialoghi, del linguaggio, soprattutto dei genitori, che parlano spesso di amenità, si battibeccano, rimbrottano, senza farsi sentire, i propri figli, sciorinando una pletora di termini ed espressioni che servono ad affermare la propria personalità all’interno di un gruppo, dove ognuno vorrebbe farsi sentire. Parole, modi di dire, gesti, abitudini, tic il cui ripetersi nel tempo aprono all’occhio, apparentemente disinteressato della scrittrice, una porta che permette di accedere a ciò che è al di là e che spesso diamo per scontato, rivelando dei nostri cari pensieri, fragilità che mai ci saremmo aspettati. La scrittrice ha scrutato in profondità i suoi parenti, con un atteggiamento tra il canzonatorio e l’affettuoso, scoprendo di ognuno una dimensione che è diventata poi il personaggio del romanzo. I due punti introducono di volta in volta il finale dei piccoli aneddoti di cui si arricchisce il racconto, “smascherando “puntualmente il personaggio che ne è il protagonista.
Avete presente quando un comico finge di raccontare un aneddoto riguardante un personaggio pubblico? Di solito esordisce con un tono serio, come se stesse annunciando qualcosa di grave e poi, dopo una breve pausa, smentisce quanto appena detto facendo ricorso a delle immagini paradossali, al limite del surreale. Ecco la Ginzburg utilizza più o meno lo stesso procedimento: nei suoi periodi esordisce con un tono grave, di chi prende sul serio le parole e le azioni del soggetto, per poi smentirlo dopo una pausa che nel romanzo corrisponde ai due punti. Ad esempio, a proposito delle frequenti gite in montagna della famiglia Levi, la scrittrice descrive il cibo che il padre imponeva in quei giorni così: «Nelle gite in montagna era consentito portare soltanto una determinata sorta di cibi, e cioè: fontina; marmellata; pere; uova sode; ed era consentito bere solo del tè, che preparava lui, sul fornello a spirito.» Nella prima parte del periodo, che precede i due punti, il lettore immagina chissà quale genere di vettovaglie portasse con sé la famiglia, ed invece, nella seconda parte, successiva ai due punti, scopre un elenco di cibi piuttosto comuni. Ancora, l’episodio in cui la scrittrice è al ristorante con suo padre che difende una mendicante dagli sgarbi dal cameriere e l’attimo dopo, l’attacca, perché infastidito dalla musica che la donna gli dedica per ringraziarlo, assumendo così lo stesso atteggiamento che aveva rimproverato al cameriere. Non riesco a fare a meno di immaginare Maurizio Crozza che imita il Signor Levi. Già, perché la bravura della Ginzburg è stata nell’”aver fatto satira ” in un romanzo, riproducendo, come un vero e proprio spettacolo, le varie scene che sono poi i suoi ricordi, reinventati. E la ragione d’essere di questi piccoli sketch è proprio la lingua attraverso la struttura dialogica in cui i personaggi parlano in prima persona, interpretando se stessi, divenendo anzi caricature di se medesimi. I personaggi presi di mira, soprattutto da chi fa satira, subiscono un processo di esasperazione di alcune delle loro caratteristiche, che possono essere fisiche, espressive, gestuali e soprattutto linguistiche. Esacerbazione che permette al personaggio di accedere facilmente nell’immaginario comune, ma soprattutto di imprimersi nella mente dello spettatore con una tale disinvoltura da associare al nome della persona in carne ed ossa, il personaggio nato dalla satira. La Ginzburg insiste sul lessico e le espressioni utilizzate dai suoi parenti, in particolare, suo padre, evidentemente il personaggio più “sfottuto”dalla scrittrice: negrigura, sempiezze, asino, sbrodighezzi sono solo alcune delle sue espressioni che ricorrono nel testo e che diventano dei veri e propri tormentoni. Quella della Ginzburg è una satira affettuosa rispetto ad un mondo dal quale, come qualcuno ha già detto, si è sentita messa da parte, perché la più piccola e quindi con meno voce in capitolo. Ma è anche l’affettuosa satira dei difetti dei suoi cari, se così si possono definire, in particolare di suo padre e sua madre, intaccando una forma di potere, la sola che conoscesse a quel tempo. Nella satira, l’obiettivo è dimostrare la negatività di un personaggio o di una situazione, partendo da un presupposto fintamente positivo; la Ginzburg si serve di questo procedimento per dire la sua sui componenti della sua famiglia. Suo padre si pronuncerà sempre a sfavore dei matrimoni dei suoi figli, senza mai ostacolarli veramente, mostrando una pseudo autorità che cela invece un grande senso di protezione nei confronti della sua famiglia che gli procura ansia tanto da farlo stare sveglio la notte.
La Ginzburg è l’autrice di una piccola galleria umana in cui ha saputo riconoscere il valore di ciascuno dei personaggi che la compongono, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, esaltando di ognuno la propria peculiarità, che insieme alle altre hanno fatto le forza del romanzo.
IL PRANZO DELLA DOMENICA
Qualche giorno fa mia nonna ha preparato una buonissima torta pan di spagna farcita di crema pasticcera, Mentre l’aiutavo a farcire la torta, ha più volte ripetuto: «Io la faccio in sette minuti, senza sbattitori elettrici, a mano, con la frusta di legno. È buona no? Io la faccio a modo mio, voi fatela a modo vostro, perché voi siete moderne». La domenica successiva che abbiamo mangiato la torta, tutti l’abbiamo elogiata per la sua bontà, ogni boccone è preceduto da un complimento: «Nonna è buonissima, è squisita, nessuno la sa fare come te», lusingata e con finta modestia lei risponde:« Sì, prendetemi per fessa, perché voi siete moderne ma le cose antiche sono le più buone. La prossima volta che la preparo, venite e vi faccio vedere come si fa un vero pan si spagna» Mia nonna, ormai novantenne, è una contadina dal cervello fino e dalle vedute piuttosto ampie per una donna della sua età e con un passato così ruvido; è soprattutto una donna profondamente consapevole dell’ingiustizia anagrafica di cui è stata vittima, nascendo in un’epoca e in un luogo che non le hanno permesso, come lei avrebbe desiderato, di esprimere la sua essenza: una persona piena di voglia di fare e dall’irrefrenabile curiosità. Spesso io e mia sorella, ci domandiamo cosa avrebbe fatto se fosse nata in un’epoca differente, con più opportunità, soprattutto per una donna. La demarcazione della linea che separa la nostra epoca, quella moderna, dalla sua, quella antica, cela una sorta di rimpianto, di rammarico per un mondo che non le è mai appartenuto se non ad un’età troppo avanzata per poterne trarre vantaggio. Insistendo così sulla genuinità e la garanzia di qualità che un tempo con più comodità sembra non poter assicurare. Il fianchetto di vitello con ripieno all’ uovo, una volta, era lei a prepararlo, la domenica, sulla brace del camino, facendolo cuocere a fuoco lento nel sugo con cui avrebbe poi condito la pasta: «Preparalo tu, io ormai, non faccio più niente. Sono vecchia, le mani non mi aiutano più» dice rivolgendosi a mia madre che va in panne ogni volta deve preparare un pranzo per un’occasione importante, come può essere la domenica. Comincia a cucinare il giorno prima, tirando fuori pentole molto grandi, per pranzi da dieci/ quindici persone, anche se siamo solo in sei. « Oh mio Dio, se n’è uscito l’uovo dalla carne, e adesso come faccio. Mi dispiace tanto. Credevo che il pezzo fosse grande ed ho messo sette uova, mamma mia come mi dispiace». Alla fine trova sempre la soluzione, salvando così il piatto e dimostrando che forse il danno era meno irreparabile di quanto credesse. « Credevo che la carne fosse stopposa, invece guarda quant’è bello questo pezzo, l’uovo come è compatto.» Con la primavera la macedonia di fragole non manca mai alla fine del convivio. «Gliel’ho chiesto al commerciante da dove vengono le fragole, lui mi ha risposto è scritto sul cartellino, e a me chi lo dice che la località di provenienza indicata sia quella vera» Un tempo mia madre non poteva sopportare che nella sua cesta arrivasse frutta dall’estero, tutto doveva essere rigorosamente italiano, garanzia di sicurezza. Oggi, alla luce delle ultime rivelazioni e scoperte dice:« Sei sicuro che vengono dalla Basilicata, perché se non è così preferisco quelle spagnole, sicuramente più controllate» Come se l’integrità delle fragole, una volta solo appannaggio italiano, sia diventata una prerogativa delle altre nazioni, la lontananza non la spaventa più.
Il pranzo della domenica è il momento in cui la famiglia esprime al massimo la sua identità, attraverso il linguaggio, le espressioni, le abitudini dall’incerta naturalità, seguendo un copione in cui ogni membro ha ben chiaro il ruolo e le battute da recitare. Uno spettacolo a cui può assistere solo chi lo interpreta, perché famigliare.
FIANCHETTO DI VITELLO
1 kg di pancetta di vitello tagliata a sacca
5 uova
Formaggio grattugiato
Mollica di pane (qb)
Prezzemolo
Sale
1,5 l di salsa di pomodoro
Cipolla
In una terrina sbattere le uova insieme al formaggio, aggiungere poi la mollica di pane, il prezzemolo tritato ed il sale e continuare a lavorare. Versare il composto nella sacca di vitello e cucire accuratamente l’apertura affinché l’uovo non fuoriesca. Una volta terminata l’operazione, in una casseruola mettere a soffriggere la sacca con olio e cipolla. Quando la carne si dorerà su entrambi i lati, aggiungere la salsa di pomodoro e far cuocere tutto a fuoco lento per un paio d’ore. Quando il fianchetto giungerà a cottura, toglierlo dalla pentola e farlo raffreddare, tagliarlo poi a fette e servirlo cosparso di salsa. Con il sugo del fianchetto si condisce la pasta, nel caso specifico noi abbiamo scelto i fusilli, una tipicità campana della pasta fatta in casa. Come contorno abbiamo invece pensato alle patate al forno che bene si sposano con la carne al sugo.
LA TORTA DELLA NONNA
Per il pan di spagna
6 uova
300 g di farina
300 g di zucchero
1 bustina e mezzo di lievito per dolci
In una ciotola montare gli albumi a neve, aggiungere poi i tuorli, lo zucchero, la farina ed il lievito. Se l’impasto risulta ancora troppo liquido, la nonna consiglia di aggiungere un po’ di farina affinché diventi bello denso. Imburrare lo stampo (volendo al burro si può sostituire la sugna) ed infornare a 180° per circa quaranta minuti.
Per la crema pasticcera
6 tuorli d’uova
6 cucchiai di zucchero
6 cucchiai di farina
1 litro di latte
In una ciotola sbattere le uova, lo zucchero (in abbondanza) e la farina. Quando saranno ben amalgamati, mettere sul fuoco insieme al latte, avendo cura di girare sempre nello stesso verso, finché la crema non si addensa. Volendo, per aromatizzare la crema, durante la preparazione si può aggiungere qualche scorza di limone.
Per il bagno del pan di spagna, mettere a riscaldare l’acqua, la scorza di uno o più limoni con un po’ di succo e abbondante zucchero. Una volta pronto, aggiungere il liquore “Strega” o qualsiasi altro sia di vostro gradimento. Tagliare la torta in due dischi e avere cura di distribuire il bagno su tutta la superficie, in particolare sui bordi, stendere lo strato di crema e ricoprire con l’altro disco di pan di spagna già bagnato. Riporre in frigo e prima di servire decorare con una spolverata di zucchero a velo.