Questa volta la special edition ci porta in Francia, per la precisione nel sud, nella bellissima e mediterranea Provenza. Grazie ad un’inviata molto speciale, una nostra carissima amica che abita ad Avignone, abbiamo raccolto abbastanza informazioni da poter realizzare un’uscita interamente dedicata alle tradizioni della cucina provenzale.
La Provenza è una regione che, come molte delle ragioni italiane, ha subito le invasioni di grandi civiltà che hanno lasciato il segno, anche nella cucina. Nel 600 a.C. i Greci sbarcarono sulle sue coste per fondare Massalia, attuale Marsilia, dove produssero una qualità d’olio di gran lunga superiore a quello del loro paese d’origine. I romani giunsero più tardi e a piedi, lasciando un’impronta profonda nella regione che denominarono Provincia. Fondarono alcune delle più belle città come Nîmes, Arles, Orange, dove la loro presenza passata si riflette nei monumenti che ancora oggi le impreziosiscono. Ma gli antichi Romani hanno lasciato tracce anche nella cucina, come le salse speziate che donano ai piatti provenzali un tocco piccante ,talmente forte da renderle uniche in tutta la Francia. L’Anchoïade, una pasta d’acciughe molto spessa, fatta con olio d’oliva, aceto e aglio, sprigiona un odore molto simile alla pasta di pesce romana, nota come garum, composta dagli ingredienti più svariati, dai semi di mostarda all’anice. Inoltre, l’usanza provenzale di servire le verdure come antipasto è probabilmente di origine orientale, importata dai Mori spagnoli, così come la predilezione per il riso allo zafferano piuttosto che per la patata.
I Romani non furono i soli ad insegnare ai Provenzali il gusto per la cucina italiana. Nel 1388 Nizza fu annessa a Casa Savoia ritornando francese solo nel 1860, epoca in cui la polenta e la pasta erano solidamente radicate nell’alimentazione del sud-est della Provenza.
La cucina provenzale ha poi continuato ad evolversi accogliendo le ricette dei turisti e dei vari «invasori» integrate con i prodotti locali come le arance secche, l’olio d’oliva, l’aglio, il timo, il basilico, il finocchio, l’acciuga e i pomodori, arricchendo ogni nuovo piatto con un sapore della Provenza più antica. L’utilizzo dell’olio al posto del burro è una costante della cucina provenzale, così come la preferenza per le verdure al posto della carne; fino al 1914 le famiglie più povere mangiavano la carne una volta alla settimana, al massimo. D’altronde tra le caratteristiche della cucina provenzale c’è l’uso abbondante di ortaggi, sempre presenti in qualsiasi portata. La cucina della gente povera non aveva una tradizione scritta, ma si tramandava oralmente sopravvivendo nella memoria e nelle abitudini delle anziane donne. Ma quali erano le abitudini culinarie dei contadini provenzali nel passato? Gli uomini, in estate, cominciavano a lavorare molto presto, verso le cinque o le sei del mattino; rincasavano tre ore più tardi per mangiare delle uova e del formaggio. Le donne invece facevano colazione con grandi scodelle di latte e caffè dove inzuppavano fette di pane con la marmellata di fichi o di melone. Dato che lo zucchero era troppo costoso, la frutta era cotta in un succo d’uva molto zuccherato.
La casse-croûte era lo spuntino di metà mattinata per colmare il vuoto allo stomaco prima del pranzo di mezzogiorno. Poteva consistere in un’omelette alle erbe, una gamella di zuppa, un pezzo di formaggio forte, il Lou Cachat, spalmato su del pane croccante. Il poeta provenzale Mistral, nato nel 1830, definiva il Lou Cachat un «formaggio profumato», nonostante l’odore molto forte, tanto da purificare le narici. É fatto con le foglie di lauro, il formaggio di capra, il cognac ed il pepe.
Il pranzo di mezzogiorno consisteva invece nella Bajane: una grande pentola con acqua, ceci, lenticchie o fagioli bianchi, ed una o due salsicce. Prima di metterla a cuocere lentamente sulla brace, per tutta la mattina, le donne la facevano cuocere per qualche minuto sul fuoco vivo. Quando gli uomini ritornavano, i legumi venivano scolati e mescolati con una salsa all’agro e le salsicce, che erano state tagliate a pezzi ed aggiunte al brodo. I due piatti erano serviti separatamente, accompagnati, qualche volta, da un’insalata d’erbe selvatiche.
Il vantaggio della Bajane è che con una sola pentola si ottengono due piatti differenti. La ricetta che vi proponiamo è accompagnata da una maionese all’aglio nota come Aïoli.
450 g di ceci tenuti a bagno per una notte con un pizzico di bicarbonato di sodio
4 porri
1 carota
5 o 6 foglie di spinaci
2 spicchi d’aglio
3 foglie di salvia
1 grossa salsiccia magra o 6 piccole
noce moscata
sale
pepe
2 cucchiaini di prezzemolo tritato finemente
75 g di pasta piccola
parmigiano grattugiato
AÏOLI
Da 6 a 12 spicchi d’aglio tagliati finemente
1 tuorlo d’uovo battuto
275 ml di olio d’oliva
Il succo di mezzo limone
Un cucchiaino di acqua tiepida
Dopo aver sgocciolato i ceci, risciacquateli di nuovo abbondantemente e asciugateli. Metteteli in una pentola grande con 3 litri d’acqua, i due porri, la carota tagliati a pezzetti, le foglie di spinaci, l’aglio, il lauro e la salvia. Portate lentamente a ebollizione, coprite bene e fate cuocere a fuoco lento per circa due o tre ore, fino a quando i ceci non si inteneriscono. Una mezz’ora prima della fine della cottura, aggiungete la salsiccia e preparate l’Aïoli. In un mortaio schiacciate l’aglio; aggiungete il tuorlo d’uovo, poi l’olio, parsimoniosamente; quando la salsa comincia ad addensarsi, aggiungete un altro filo d’olio, senza smettere di sbattere. Quando l’uovo ha assorbito circa la metà dell’olio, aggiungete il succo di limone e l’acqua, versandola lentamente. Se la salsa diventa troppo densa prima di aver aggiunto tutto l’olio, versate un po’ di acqua tiepida. Aggiustate di sale e di pepe. Quando i ceci e la salsiccia sono cotti, toglieteli dal brodo. Poi togliete le altre verdure, mescolatele con i ceci, l’ Aïoli, 1 porro crudo tagliato a pezzi, la noce moscata, il sale ed il pepe. Decorate con il prezzemolo. Tagliate le salsicce a rondelle, passate il brodo, aggiungete il resto dei porri sminuzzati, la pasta, il sale e il pepe. Mettete di nuovo sul fuoco fino a quando la pasta non è cotta. Insaporite con parmigiano grattugiato.
Il pasto della sera veniva preparato la mattina: una grande omelette con le uova ancora calde, farcita con formaggio e riscaldata poco prima di servirla, dei gratin di verdure arricchiti con qualche acciuga, il Lou Cachat ed infine del formaggio fresco con ciliegie cotte con il miele di lavanda.
Il venerdì invece era la volta della Brandade preparata con il baccalà; ogni venerdì, un pezzo di baccalà, posto in un cesto coperto, veniva messo a bagno nella fontana del paese. Dopodiché veniva schiacciato con dell’olio d’oliva,ottenendo così la Brandade de morue, un piatto leggendario. Nei giorni in cui non era previsto il pesce, si poteva ugualmente preparare una Brandade de haricots aux artichauts (Brandade difagioli ai carciofi) cremosa, a base di fagioli bianchi, carciofi violetti, cotti a fuoco lento nel vino alle erbe e, volendo, delle scaglie di tartufo che, sparse sulla superficie, diffondono un odore del territorio, intenso, inimitabile.
BRANDADE DE HARICOTS AUX ARTICHAUTS
6 carciofi grandi o piccoli
Il succo di un limone e mezzo
2 porri finemente tagliati
Olio d’oliva
Timo, lauro e santoreggia
Sale e pepe
350 ml di vino bianco
Mettere a bagno i carciofi in acqua fredda con mezzo succo di limone. Pulite i carciofi uno per uno: togliete prima le code e le foglie troppo dure,poi tagliateli trasversalmente e privateli del fieno. Versate qualche goccia di limone sui carciofi tagliati in due, per evitare che anneriscano. In una grande pentola dal fondo spesso, fate soffriggere i porri con l’aglio. Aggiungete i carciofi e le erbe aromatiche, insaporite con la cannella, il sale e il pepe, aggiungete l’olio d’oliva. Versate il vino e l’acqua necessaria a coprire, portate a ebollizione. Coprite, lasciate cuocere a fuoco lento, togliete i carciofi e riducete il brodo di metà o di tre quarti.
350 g di fagioli bianchi messi a bagno per una notte
2 o 3 spicchi d’aglio tagliati finemente
175 ml d’olio d’oliva
da 50 a 70 ml di latte
Il succo di un mezzo limone
sale, pepe
12 crostoni di pane
Risciacquate accuratamente i fagioli sotto l’acqua corrente, e togliete la pelle. Metteteli in una casseruola con erbe aromatiche e ricoprite con 2,5 cm d’acqua. Portate a ebollizione e fate bollire per 5 minuti, abbassate il fuoco, coprite e fate cuocere dolcemente per tre ore circa: i fagioli devono essere teneri ma non ridotti in poltiglia. Passateli. Aggiungete l’aglio sbattendo con un cucchiaio di legno, poi l’olio d’oliva ma assicurandovi che il fuoco sia dolce. A metà preparazione, cominciate ad aggiungere regolarmente un filo di latte caldo (a ebollizione). Concludete aggiungendo il succo di limone, aggiustate di sale e pepe.
Versate la brandade in un piatto grande , cospargete di crostini. Disponete intorno i carciofi, irrorate con il brodo passato. Potete sostituire ai crostini delle fettine di prosciutto cotto.
Il pranzo della domenica, molto più lungo ed elaborato, prevedeva: un enorme mortaio di pietra strabordante Aïoli , una scodella di lumache in brodo, baccalà cotto, fagioli verdi finissimi, asparagi selvatici, ceci e patate molto piccole. Il tutto bagnato dal vino locale messo al fresco nella fontana; inoltre fette di prosciutto cotto di montagna, uova sode farcite di Tapenade ,una crema a base di olive e capperi. Qualche volta, ma raramente, l’Aïoli era sostituita dalla carne: arrosto d’agnello farcito con aglio e acciughe; pollo o lepri selvatiche cotti a fuoco lento nel vino; sanguinaccio; ragù provenzale; stufato di montone o di bue messo a cuocere all’alba con le scorze di arance secche. E per finire un dolce alla zucca caramellata, o un budino. Poi le donne si abbioccavano all’ombra degli alberi, svegliate solamente dal rumore delle palle della pétanque, una sorta di gioco delle bocce, con cui si dilettavano gli uomini.
TAPENADE
300g di olive nere snocciolate
200g di capperi risciacquati
2 acciughe passate nel latte per eliminare il sale
1 spicchio d’aglio schiacciato
1 cucchiaino di semi di mostarda o di pepe grigio
1 foglia di lauro fresco, finemente tagliata
una manciata di timo fresco
1 bicchierino di cognac
2 cucchiaini di succo di limone
Olio d’oliva
Mescolate tutti insieme gli ingredienti solidi al fine di ottenere una pasta grossolana. Aggiungete il cognac ed il succo di limone, poi l’olio d’oliva, parsimoniosamente,avendo cura di sbattere bene fino ad ottenere un composto denso.
LA SOUPE DE COURGE
Le grandi zucche arancioni, chiamate courges in Provenza, sono una specialità della regione di Lucéram. Con le courges si farciscono le pizze quando non è la stagione dei pomodori, o si prepara la minestra, o una vellutata arancione, dolce e cremosa. Queste due zuppe sono ancora più deliziose se servite nella buccia della zucca.
1 kg di polpa di zucca, tagliata a dadini
250 g di patate farinose, pelate, tagliate a dadini
3 porri, lavati, tagliati finemente
1 spicchio d’aglio
2 cucchiaini di origano
mezzo cucchiaio di noce moscata
2 l di brodo o di acqua
sale, pepe
50 g di riso
100 g di formaggio groviera grattugiato
3 uova sode
Mettete tutti gli ingredienti, ad eccezione delle uova, del formaggio ed del riso in una casseruola alta. Portate ad ebollizione, fate cuocere a fuoco lento 30 minuti. Ottenete una purea, aggiustate di sale e pepe, e portate di nuovo ad ebollizione, dolcemente. Versate il riso, fate cuocere 20 minuti a fuoco dolce. Versate la zuppa nell’involucro svuotato della zucca, e decorate la superficie con il formaggio grattugiato e le uova tagliate a pezzi.
TIAN DE COURGE
Le domeniche d’inverno, nei camini degli abitanti di Apt e Ménerbes, c’è sempre un arrosto allo spiedo e per contorno o delle cipolle cotte nel sughetto della carne aromatizzato alle erbe o un succulento tian di zucca cotto in un recipiente di terra. Il termine «tian»indica allo stesso tempo un gratin provenzale ed il piatto in cui è cotto. Quando i forni elettrici o al gas ancora non esistevano, il tian, con un coperchio in metallo fondo, riempito con il carbone, era messo a cuocere su un piatto di ferro a tre piedi, in un angolo del camino.
1 kg di zucca, pelata, senza semi, e tagliata a dadini
mezza scodella di riso cotto per dieci minuti e ben sgocciolato
1 pugno di groviera grattugiata o parmigiano
4 cucchiai di farina setacciata
3 spicchi d’aglio finemente tagliati
5 cucchiai di timo finemente tagliato
mezzo cucchiaino di noce moscata grattugiata
sale, pepe
100 gr di pangrattato
Olio d’oliva
Preriscaldate il forno a 170 gradi. Mescolate tutti gli ingredienti insieme ad eccezione del pangrattato fin quando la zucca non si è ben amalgamata con la farina e le erbe aromatiche. Disponete in un piatto da gratin e coprite con il pangrattato. Versate sulla superficie qualche cucchiaio d’olio e fate cuocere fino a quando il tian non diventa croccante e color del caramello. La zucca deve avere la consistenza di una purea. È un piatto che può essere servito solo, con un’insalata d’inverno croccante o accompagnato da un arrosto.
TIAN DE LAIT RUSTIQUE
L’antica ricetta della crema alla vaniglia un tempo prevedeva il latte di capra, oggi sostituito dal latte vaccino. Nella ricetta originale, il tian viene servito con un cucchiaio di confettura al melone al centro, oppure con una purea di frutta (ciliegie, fragole, lamponi).
mezzo litro di latte
1 scorza d’arancio
un baccello di vaniglia
1 o 2 cucchiaini di rum
75g di zucchero
3 uova battute
la mollica finemente sbriciolata di tre pezzi di pane
2 cucchiaini di zucchero
Preriscaldate il forno a 200 gradi. Portate il latte ad ebollizione, con la scorza d’arancio e il baccello di vaniglia. Abbassate leggermente la fiamma e aggiungete, mescolando, il rum e lo zucchero fino a quando non si è fuso. Togliete dal fuoco, fate raffreddare per 10 minuti. Togliete la vaniglia e la scorza d’arancio, e versate lentamente il liquido sulle uova senza smettere di mescolare. Dividete la crema in 6 o 8 pirottini che metterete in un piatto poco profondo riempito d’acqua. Fate cuocere al forno circa 45 minuti, fin quando la crema non si è rappresa. Versate sulla superficie un cucchiaio di confettura o di purea di frutta al momento di servire, volendo anche della cioccolata.
POULET FARCI AU BASILIC
4 petti di pollo
5 cucchiai di purea di basilico
sale, pepe
1 porro tagliato a pezzettini
400 ml di formaggio fresco, ricotta o panna
Sollevate con precauzione la pelle di ogni petto mantenendola attaccata all’estremità. Incidete il centro di ogni petto e riempite di pure di basilico. Ripiegate la pelle, salate e pepate, fate cuocere alla griglia ogni lato tra i 15 e i venti minuti, fino a quando il succo che fuoriesce non diventa chiaro. In questo momento preparate la salsa: in una casseruola che non attacca, fate cuocere il porro con l’olio. Aggiungete il formaggio fresco e riducete di circa la metà cuocendo a fuoco molto lento. Aggiungete all’ultimo minuto 1 cucchiaio di purée di basilico, versate questa salsa sui petti arrostiti e servite.
PURÉE DE BASILIC
Foglie di basilico fresco
Olio d’oliva
Riducete a purea le foglie di basilico tagliandole finemente oppure aiutandovi con un mortaio . Aggiungete l’olio d’oliva, un cucchiaio per 10 foglie. Versate in vasetti e cospargete la superficie con un filo d’olio, chiudete ermeticamente.
OMELETTE AU BROCCIO
Questa omelette ha un gusto dolce ed il sapore delicato della menta fresca. È il modo ideale per utilizzare il Broccio o Brin d’Amour, il formaggio corso di pecora, dolce e cremoso.
15 g di burro
3 foglie di menta fresca tagliata finemente
2 uova leggermente battute con due cucchiai di zucchero
3 cucchiai di formaggio dolce di pecora corso
1 cucchiaio di panna fresca densa
zucchero
2 foglie di menta per guarnire
Fate riscaldare una padella di 25 cm di diametro. Fate fondere a fuoco vivo il burro con le foglie di menta tagliate finemente. Quando le bolle diminuiscono, aggiungete le uova, il formaggio e la panna versata a cucchiaio sulla superficie. Agitate la padella più volte liberando i bordi con una spatola affinché la miscela liquida si distribuisca al di sotto. Dal momento in cui la superficie non cola più ma l’omelette non è ancora cotta, piegatela in tre e ripiegate i bordi verso il centro e fatela scivolare in un piatto da servizio. Decorate con foglie di menta, servite subito.
BOUILLABAISSE
La Bouillabaisse era, all’origine, la zuppa del pescatore povero: un mix di tutto ciò che era troppo piccolo, troppo piccante o troppo brutto da vedere. La si faceva cuocere nell’acqua e nell’olio d’oliva, si mangiava con le mani, accompagnata dal pane. Questo ragù di mare,con l’aggiunta tipicamente marsigliese dell’aglio, del finocchio, del pomodoro e della salsa piccante (la Rouille), acquistò presto il nome di Bouillabaisse. O , in provenzale,Bouiabasso perché quando la pentola spinge, si abbassa il fuoco. In altre parole, il brodo deve cuocere a fuoco vivo, affinché l’olio e l’acqua si amalgamino, ma non troppo a lungo, perché il pesce non deve cuocere troppo. Per salvaguardare la purezza della ricetta originale, un gruppo di pescatori, giornalisti e ristoratori marsigliesi hanno redatto una carta in cui stabiliscono, una volta per tutte, gli ingredienti principali di questo piatto. È impossibile ridurre ad una semplice formula una ricetta il cui successo è imprescindibile dal talento dello chef. Tuttavia alcuni ingredienti sono indispensabili se si vuole rispettare la tradizione della Bouillabaisse. Generalmente si serve il pesce in un piatto, il sugo in un altro, a seconda del gusto personale, ma il pesce non deve mai essere tagliato prima di arrivare a tavola. La Rouille e l’Aïoli accompagnano tradizionalmente questo piatto, con delle fette di pane all’aglio. Il gusto caratteristico della Bouillabaisse di Marsiglia è dovuto alla presenza di una grande varietà di pesci mediterranei (lo scorfano in particolare). Si deve al loro particolare gusto la fama di questo piatto che, senza, sarebbe una semplice zuppa di pesce. Almeno quattro di questi pesci sono assolutamente indispensabili: scorfano, scorfano bianco, tracina/grancevola, gallinella/triglia Saint-Pierre, rana pescatrice, grongo, scorpena.
Facoltativi: cicala di mare, aragosta
Altri ingredienti: sale, pepe, zafferano, olio d’oliva, aglio, cipolle, finocchio, prezzemolo, patate, pomodori.
Per 6 persone:
4 kg di pesce seguendo l’ordine:
1,5 kg di scorfano, 1 kg di triglie, 6 tranci di grongo, 3 gallinelle, 4 tracine, 6 tranci di rana pescatrice
1 kg di pesce di roccia
Olio d’oliva, cipolle, aglio, pomodori, finocchio, prezzemolo, sale, pepe, patate, zafferano
Fate rosolare la cipolla, l’aglio ed i pomodori. Aggiungete il pesce di roccia, lavato e squamato, e mescolate per 15 minuti fino ad ottenere un impasto denso. Allungate con dell’acqua bollente e fate cuocere almeno un’ora. Aggiungete il finocchio, il prezzemolo, il sale ed il pepe, e fate una purea. Passate la purea assicurandovi di schiacciare bene affinché sia estratto tutto il succo. Rimettete sul fuoco, aggiungete le patate (2 per persona) tagliate a rondelle spesse, ed il pesce, seguendo quest’ordine: scorfano, Saint-Pierre, grongo, rana pescatrice. Fate bollire per 20 minuti. Cinque minuti prima di servire, aggiungete le gallinelle e le grancevole. Quando sono cotti, togliete dal brodo il pesce e le patate, aggiungete il sale, il pepe e lo zafferano, e servite.
LA ROUILLE
La ricetta più frequente consiste nell’aggiungere dei peperoncini e un pizzico di zafferano all’Aïoli, ma c’è un’altra versione in cui l’Aïoli è sostituita da un purée di patate.
CALISSONS D’AIX
Se Marsiglia è nota per il ragù di mare, Aix-en-Provence spopola per i suoi Calissons d’Aix, dolcetti alla pasta di mandorla. La Provenza produce le mandorle più dolci d’Europa e Aix n’è la capitale incontestata. I suoi calissonssi sono aggiudicati la denominazione controllata(come i grandi vini) per la loro qualità. Commercializzati tra il 1830 ed il 1860, quando le confetture e le pasticcerie d’Aix hanno cominciato ad essere celebrate in tutta la Francia, i calissonssono costituiti dal 40% di mandorle mondate, pelate e cotte a fuoco dolce, ed dal 60% di melone candito e sciroppo di frutta. Dei macchinari speciali sono utilizzati per
lavorare questo impasto difficile da ottenere per una cuoca ordinaria. La ricetta che vi proponiamo, di J.B. Reboul (1895), rappresenta una versione casalinga di tutto rispetto.
250g di zucchero cristallino
300g di polvere di mandorle
30ml di melone candito schiacciato
40ml di sciroppo di albicocca o altri frutti
1 foglio d’ ostia
GLASSA REALE
200g di zucchero a velo
2 bianchi d’uovo, battuti
In un mortaio pestate lo zucchero e le mandorle insieme. Passate al setaccio e rimettete nel mortaio. Aggiungete il melone candito e lo sciroppo di frutta in una quantità sufficiente al fine di ottenere un impasto omogeneo. Trasferite l’impasto in una teglia, appiattite leggermente e fate cuocere a fuoco lento fin quando l’impasto non acquista una consistenza solida. Stendete l’impasto su un foglio d’ostia dallo spessore di 6 mm. Preparate la glassa battendo lo zucchero a velo ed i bianchi d’uova con un cucchiaio in legno fino ad ottenere una crema liscia e brillante. Applicate uno strato finissimo di glassa sull’impasto dei calissons. Quando la glassa si sarà solidificata, tagliate i calissons secondo la forma di un ovale allungato di 35 mm circa. Fate asciugare ancora 10-15 minuti a fuoco medio.
A Arles comincia la Camarga, vasto delta piatto, metà deserto paludoso, metà ranch agricoli, ricchi, delimitati dai due rami del fiume Rodano nel suo corso verso il Mediterraneo. È un paesaggio che richiama i grandi fiumi Nilo e Tigri. E d’altronde gli abitanti della Camarga potrebbero affondare le loro radici nelle terre a ridosso dei fiumi orientali: pelle olivastra, occhi color dattero, una cucina frutto dell’inventiva gitana e dell’abbondanza marittima. A Arles, dopo le corride, niente viene sprecato. I tori sono fatti a pezzi dai macellai, la loro carne venduta nei mercati e cotta con le acciughe, a fuoco lento, a lungo. Sulla costa, a Saintes-Maries-de-la-Mer, dove i gitani si recano due volta all’anno per celebrare la loro santa, Santa Sarah, si trovano delle anitre selvatiche dalla carne salata, telline, cozze e seppie cotte con del riso della Camarga, dello zafferano e del finocchio; e un ragù d’anguille allo zafferano, il Catigot, servito con una Rouille che brucia come il fuoco.
Il sud-ovest della Francia è il vero paese d’origine dell’Aïoli. Qui, ogni festa estiva, ha la sua grande Aïoli, con enormi mortai pieni di questa salsa di un giallo brillante, baccalà e verdure cotte. Il Pain Martégau , dalla città di Martigues, fu inventato per riciclaree gli avanzi di queste grandi abbuffate.
Se vi capita di fermarvi a Maussane, famosa per i migliori frantoi della Provenza, durante una calda giornata d’estate e vedete nella piazza del paese delle anziane signore impegnate a sbucciare i fagioli, sicuramente sono alle prese con la preparazione della Soupe à pistou che ad Arles si prepara con il basilico ed i pomodori crudi. La salsa non viene cotta, ma aggiunta alla zuppa all’ultimo minuto.
Per 6 persone
500g di fagioli verdi, tagliati in due
500g di fagioli pinto o di fave, sbucciati
500g di fagioli bianchi freschi sbucciati o 250g di fagioli secchi, messi a bagno 12 ore prima
2 patate pelate, tagliate a pezzi
2 pomodori pelati
500 g di zucchine tagliate a rondelle
il bianco dei porri tagliati a dadi
le foglie di 2 rametti di sedano tagliuzzate
sale, pepe
100 g di pasta
SALSA
3 o 4 spicchi d’aglio
2 mazzi di basilico fresco
100 g di groviera o parmigiano grattugiato
1 pomodoro senza semi grigliato
2 o 3 cucchiai di olio d’oliva
Portate ad ebollizione 2 litri d’acqua fresca, con le verdure, il sale ed il pepe. Coprite, lasciate cuocere a fuoco lento per circa 2 ore. Aggiungete la pasta, un po’di sale, del pepe se necessario e fate cuocere ancora 15 minuti. Se preferite, potete utilizzare i fagioli precotti da aggiungere alla zuppa insieme alla pasta, lasciando prima cuocere le altre verdure. Per la salsa al pistou, schiacciate l’aglio ed il basilico fino ad ottenere una pasta, aggiungete il formaggio ed il pomodoro grigliato. Aggiungete l’olio d’oliva, poco alla volta, continuando a mescolare, poi qualche cucchiaio del brodo della zuppa. Servite la zuppa con la salsa al pistou nel mortaio.
Un’alternativa al basilico è rappresentata dalla maggiorana o dall’origano fresco.
Ogni sabato al mercato di Arles, numerosi sono i cartelli che sponsorizzano il baccalà, ingrediente fondamentale per la preparazione della Brandade ,di cui abbiamo parlato, un impasto cremoso di baccalà, latte caldo ed olio d’oliva, nota sia nella regione della Linguadoca sia nel sud-ovest della Provenza.
Il termine deriverebbe dal verbo brandire, gesto che i cuochi, prima della scoperta dello sbattitore, dovevano fare con le loro cucchiaie di legno per realizzare questo piatto laborioso. In Provenza la Brandade è spesso utilizzata per farcire tartine di pasta sfoglia o i ravioli di pasta fresca.
La Brandade de morue (di baccalà) con le sue consistenti quantità di olio e di latte, potrebbe essere particolarmente pesante per uno stomaco non abituato. Quella che vi proponiamo, una versione del XIX secolo, al limone e ai peperoni rossi, è più leggera. Per 4 persone:
500g di baccalà
6 porri pelati e tagliati a pezzi in senso longitudinale
2 scalogni finemente tagliati
1 spicchio d’aglio finemente tagliato
45ml di olio d’oliva
3 cucchiai di prezzemolo fresco tritato
1 peperone rosso grande, senza semi e tagliato a pezzi
Pepe grigio
1 limone, pelato e tagliato a rondelle
Mollica di pane
Preparate prima di tutto il baccalà: mettetelo a bagno nell’acqua fredda (cambiando spesso l’acqua) dalle 24 alle 36 ore. Scolate, coprite di nuovo con l’acqua fredda e fate cuocere rapidamente da 8 a 10 minuti, affinché si intenerisca, ma senza far bollire.
Preriscaldate il forno a 175°C. Scolate bene il baccalà, togliete la pelle e le lische. Fate cuocere i porri, gli scalogni e l’aglio nell’olio d’oliva e quando il tutto si è appassito, aggiungete il prezzemolo, il peperone rosso e molto pepe grigio. Versate la metà della salsa in una pirofila imburrata. Cospargete sulla superficie metà delle fettine di limone, il baccalà, poi il resto del limone e l’altra metà della salsa di porri. Cospargete il pane grattato, bagnate con l’olio d’oliva e fate cuocere al forno per 1 ora, aumentando la temperatura negli ultimi dieci minuti per far dorare la superficie.
PAN COUDON
Il gusto delicato, a metà strada tra la mela e la pera della mela cotogna, è utilizzato per preparare gelatine e caramelle, o per deodorare gli enormi armadi che un tempo si trovavano in tutte le fattorie provenzali. La ricetta che stiamo per darvi può essere preparata anche con altre tipologie di mele.
Per 4 persone
225g di miele
225g di noci tagliate grossolanamente
6 mele cotogne disossate e sbucciate
750g di pasta di pane o focaccia
1 uovo battuto
Zucchero in polvere
Preriscaldate il forno a 220°C. Fate fondere le noci con il miele fino a farle rosolare e riempite le mele. Stendete uno strato di pasta di 1 cm di spessore e ricavate 6 cerchi. Al centro di ciascuno, mettete una mela, avvolgetela nella pasta, e chiudete bene. Spennellate ogni pallina di pasta con l’uovo sbattuto e fate cuocere al forno tra i 25 e i 30 minuti. Insaporite con lo zucchero e servite calde con un vasetto di panna fresca.
Le mele cotogne o altri tipi di mela sono deliziose anche se riempite con qualche cucchiaio di confettura alle albicocche.
FOUGASSE(focaccia, impasto per le pan coudon)
25 g di lievito in polvere fresco
500 g di farina bianca, setacciata
30 ml di succo d’arancio
150 ml di acqua tiepida
200 g di zucchero semolato
2 uova battute
1 pizzico di sale
1 cucchiaio di semi di finocchio
Mettete in un recipiente il lievito, 6 cucchiai di farina ed il succo d’arancio e mescolate aggiungendo l’acqua, in modo da formare una palla di pasta molla. Incidete profondamente la superficie e lasciate lievitare in un luogo tiepido. Quando l’incisione è scomparsa, mettete il resto della farina in un grande recipiente, fate un buco al centro e aggiungete tutti gli ingredienti (ad eccezione del finocchio), compreso l’impasto con il lievito. Lavorate bene con la forchetta e la mano. Mettete poi la pasta su un piano da lavoro leggermente infarinato, e cominciate ad impastare: formate una palla, girando in senso orario e appiattendola più volte. Continuate per 10 minuti, raccogliendo la pasta per batterla contro il recipiente fino a quando risulta elastica e non si attacca più. Mettete la pasta in un recipiente e lasciate lievitare, a temperatura ambiente, per circa tre ore. Colpite poi dolcemente la pasta,impastate ancora per qualche minuto per sopprimere le bolle d’aria, poi dividete in 4 parti. Date a ciascuna una forma ovale di 1,5 cm di spessore,adagiatele su una teglia imburrata e praticate 6 fessure diagonali, separandole bene.
Chiudiamo questa breve carrellata di ricette tipiche provenzali con una bevanda ottima per l’aperitivo: il Vin d’orange che è anche il tradizionale vino delle feste di Natale e Capodanno.
1,5 l di côte du Rhone rouge(11,5°o 12° massimo)
5 arance grandi divise in quattro
1 limone tagliato a fettine di 1 cm
1 baccello di vaniglia
½ cucchiaino di noce moscata
280g circa di zucchero cristallizzato
250ml d’alcool di frutta, d’acquavite o di alcool bianco con un tenore di 80°
Mettete il limone, le arance, la noce moscata e il baccello di vaniglia in una grande damigiana in vetro, con il vino. Chiudete ermeticamente e lasciate riposare 40 giorni. Filtrate con un panno di garza o mussolina, e aggiungete 100g di zucchero per un litro di liquido. Una volta che lo zucchero si è fuso, aggiungete l’alcool di frutta puro. Chiudete di nuovo ermeticamente e fate riposare ancora un mese, prima di gustarlo. Questo vino continua ad invecchiare per 3 o 4 anni, fino ad acquistare la consistenza dello Sherry.
Per fare il liquore Farigoule (timo in provenzale), un tipico liquore provenzale,riempite di timo fresco una bottiglia di vino di ¾. Ricoprite con alcool bianco, chiudete ermeticamente e lasciate riposare due mesi. Fate allora bollire 100g di zucchero con ¼ di litro di acqua fino ad ottenere la consistenza di uno sciroppo. Filtrate l’alcool e mescolatelo allo sciroppo. Versate in una bottiglia da un litro, chiudete, e bevete dopo due mesi.
La cucina provenzale è davvero vasta, abbiamo così scelto le ricette che ci hanno colpito maggiormente e soprattutto quelle che meglio rappresentano la tradizione culinaria provenzale.
Anche se la cucina è la vera protagonista di questa special edition, non poteva mancare un breve riferimento letterario con il romanzo L’ussaro sul tetto dello scrittore provenzale Jean Giono nato a Manosque, una cittadina dell’Alta Provenza. I paesaggi del sud della Francia, di cui i suoi libri sono ricchi, sono la testimonianza di quella centralità che la terra con i suoi frutti ha in questa regione, dando origine all’enorme patrimonio paesaggistico e culturale in cui la cucina gioca un ruolo di primo piano. Tra le ricette che vi abbiamo raccontato ed i panorami descritti da Giono, sembra esserci una continuità che conferma l’originalità di questo territorio, impossibile da alterare, anche nell’immaginazione.
Il piacere della bellezza
Il collasso di un’epoca, dove nuovi vecchi poteri governano immobili da spropositate altezze, si manifesta attraverso il putridume e la decomposizione fisici di corpi corrotti dalla malattia che, a sua volta, si è lasciata corrompere da una società che ha preferito scendere a compromessi, dandole in cambio milioni di cadaveri, anziché salvaguardare la propria bellezza. Perché al decadimento morale necessariamente segue il decadimento fisico. Sono le scelte individuali a determinare l’andamento della salute fisica di un luogo e di una collettività. E così i bellissimi paesaggi dell’Alta Provenza francese si trasformano nel romanzo di Jean Giono, L’Ussaro sul tetto (1951),in luoghi infernali dove anche erbe dalle proprietà culinarie, come il timo e la santoreggia, e alberi di ulivi da cui deriva l’olio, elemento essenziale della cucina provenzale, sono vittime di un rovesciamento del loro valore estetico: non più proiezione dell’idea di bellezza ma metastasi del male. Luoghi che però riacquistano, a sprazzi, l’ originario e mitologico splendore quando a toccarli sono le mani di Angelo Pardi che riesce, forse perché ancora incarnazione della bellezza, a ricrearla. I tetti, su cui si rifugia per sfuggire all’epidemia che sta devastando Manosque, nella pesantezza della loro desolazione aggravata dal caldo asfissiante che avvolge in una spessa pellicola l’intero paesaggio, manifestano sempre, al passaggio dell’ussaro, un tentativo ad esser belli. Angelo Pardi, giovane aristocratico piemontese che ha aderito ai moti carbonari del 1832, rappresenta colui che non si è lasciato corrompere dai mali che attanagliano gran parte della società. La sua ribellione si manifesta prima di tutto nella fisicità, forte e vigorosa, che da subito si contrappone alla mancanza di vita che lo circonda. E poi nel bisogno d’ordine, la pignoleria e il senso del dovere lo rendono a tratti quasi noioso. Angelo non è mai impreparato, mentre il morbo imperversa, paralizzando oltre che per i danni soprattutto per la paura di esserne contagiati, non si lascia intimorire, fugge sui tetti, si procura del cibo evitando sempre di bere acqua, viaggia nelle foreste della Provenza da solo, cura i malati terminali, accettando di buon grado i fetidi e mostruosi rigurgiti della malattia, senza mai avere un attimo di sconforto, il suo più gran talento è rimediare facilmente una soluzione , come altrettanto facile per Angelo è adattarsi alle circostanze più estreme che la sua fuga dall’Italia ha comportato. Angelo è un tenero ed ingenuo ragazzo di 25 anni pieno di ideali, in nome dei quali combatte e agisce sempre. Scorterà e assisterà Pauline de Théus, sua compagna di viaggio per buona parte del romanzo, fino al castello di famiglia curandola e salvandola dal colera, disertando inoltre l’appuntamento con Giuseppe, suo fratello di latte, a Sainte Colombe, pur di non lasciare sola la donna. Fin qui nulla di nuovo, si tratta dell’elenco delle gesta di un eroe da cappa e spade, romantico, non solo in riferimento alla corrente letteraria , ma anche all’accezione più generica e rosa del termine, un gentleman, un cavaliere che non dimentica mai il suo dovere sebbene questo contrasti con i suoi desideri: un vero e proprio principe azzurro sempre pronto a sguainare la spada. Ciò che invece rende Angelo vulnerabile , strappandolo all’immagine di eroe, sono i flussi di pensieri in cui il giovane s’interroga sulle sue azioni, rivelandone le insicurezze. Il giovane uomo, in occasione dell’incontro con la suora che aiuterà nella raccolta e pulizia dei cadaveri a Manosque, s’interrogherà se la loro abnegazione è disinteressata o il frutto dell’esigenza di piacere a se stessi, giungendo alla conclusione che in ogni gesto di dedizione all’altro c’è sempre la volontà di essere orgogliosi di sé. La bellezza di Angelo non risiede tanto nella propensione ad assistere il prossimo, che lo rende un eroe ordinario, quanto piuttosto nella salvaguardia della sua persona non solo dal contagio del male ma dall’egoismo, al fine di procurare ai suoi occhi un’immagine di sé stesso che sia bella; un fine dai connotati individualistici perché non è il prossimo la vera preoccupazione di Angelo ma se stesso e la cura della sua estetica interiore ed esteriore. Gli altri sono solo il mezzo attraverso cui raggiungere questo ideale di bellezza che si oppone all’orrore dell’intero romanzo, risultato della non aspirazione ad essa con la conseguente perdita del piacere che si trae dalla sua contemplazione. La bellezza è per Angelo Pardi il fine ultimo, la causa suprema del suo essere, il confine che lo separa dal nulla che attraversa senza mai invaderlo.