La solitudine ai tempi dei Social Network

La solitudine ai tempi dei Social Network
La solitudine ai tempi dei Social Network 5 1 Anonymous
Nadia Nunzi

Nadia Nunzi

L’autoreferenzialità, l’abuso di metafore, il vuoto diegetico, la predominanza di un personaggio a scapito di tutti gli altri, insomma sembra che Nadia Nunzi abbia commesso gli stessi errori di Maria  Cristina Petrucci, nel racconto Occhi di cielo e stelle. Ma se la Petrucci ha messo insieme una serie di tematiche scordandosi poi di trattarle, in Occhi di cielo e stelle il leit motiv della solitudine dona al racconto un’unitarietà. Mi verrebbe da dire, ricalcando il titolo di un famoso romanzo, la solitudine ai tempi dei social network. Che i social network non abbiano contribuito al rafforzamento  dei rapporti interpersonali, affievolendoli anzi, è un fatto ormai conclamato che sta allarmando anche il mondo della cultura che, sempre di più, attraverso film, romanzi, articoli, dedica attenzione al complesso fenomeno della solitudine in una società a cui non si può di certo rimproverare la mancanza di mezzi di comunicazione. Proprio qualche giorno fa leggevo un articolo di Furio Colombo sull’ennesimo suicidio adolescenziale causato dall’uso irresponsabile e moralmente deregolamentato dei social. L’aspetto interessante che evidenziava Colombo era la dimensione provinciale che i social network assumono, restringendo al minimo gli spazi e provocando una circoscrizione dei rapporti, anzi della vita, in un contesto che ha tra le caratteristiche fondamentali la globalità. Recentemente al cinema è approdato il film si Spike Jonze, Her, che ha per protagonista un triste e solitario divorziato che s’innamorerà di un sistema operativo dotato d’intelligenza artificiale, riducendo al minimo, quasi a nulla, le relazioni con gli esseri umani. Nives, la protagonista di Occhi di cielo e stelle, circoscrive il suo mondo alla cameretta e al computer.

La prima domanda che sorge, allora, è questa, e  anche una contraddizione di termini: se scegliamo di essere soli, perché sentiamo comunque l’esigenza di cercare relazioni, seppure virtuali? Quali sono le cause dell’autoconfinamento in questa pseudo solitudine? Semplice ,la paura degli altri. Si tratta però di una verità ormai risaputa, vecchia quanto il mondo, nulla di nuovo. Ciò che ci sta paralizzando oggigiorno invece è la paura della paura, una sorta di psicosi che ha portato all’adozione di una terapia preventiva: astenersi a priori dalle relazioni per risparmiarsi delusioni, dolori, responsabilità, lavoro; per schivare il contagio si evita il contatto. Se fino a qualche tempo fa si preferiva andare con i piedi di piombo senza rinunciare però ai rapporti oggi, ai tempi dei social, possiamo abiurare più facilmente perché sappiamo che non si tratta di una rinuncia definitiva, che possiamo sopperire a quella mancanza attraverso la rete; per la serie due piccioni con una fava: abdichiamo ma non del tutto, e inoltre senza doverci mettere in discussione. Nel racconto della Nunzi, al di là della lunga lista di motivazioni, poco convincenti perché retoriche e stereotipate (non a caso le stesse elencate dalla Petrucci e da qualche altra scrittrice in cui mi sono imbattuta negli ultimi mesi), manca l’episodio che ha determinato quella situazione. Prevale, come nel romanzo della Petrucci, il vittimismo che diventa poi la sola ragione, nonché alibi, che giustifichi la tormentata solitudine della protagonista. Il lettore è costretto a sorbirsi una pletora di effetti derivanti da cause che restano però sconosciute. La presunta diversità della protagonista non è riconosciuta da nessuno, se non da se stessa che se ne compiace; gli altri, unici imputati, sono clamorosamente assenti. Chi sono questi cattivi che hanno provocato tanto dolore alla giovane protagonista da costringerla alla quarantena? Non si capisce, non vengono fatti nomi e cognomi; sono gli altri, una massa informe ed opaca che si è macchiata di colpe imperdonabili e che merita di essere punita rimanendo fuori dalla vita di Nives. Saltuariamente, in maniera del tutto irrilevante, vengono citate la mamma della protagonista e la sua migliore amica: la prima a tutti i costi una nemica, la seconda una superficiale a cui voler bene però, data l’incredibile capacità che la protagonista ha di accettare gli altri. Queste due figure fungono da puntelli di quella struttura incerta e traballante che è la solitudine di Nives; involontari soggetti dell’operazione di allontanamento di una persona che credono di amare, motivo che dovrebbe essere sufficiente a trattenerle nella propria vita. Poi, un attimo dopo aver disprezzato la vacuità e la pochezza degli altri, in chat la giovane Nives è attratta da un nome che la persuade ad intraprendere una conversazione, e così scopre di avere a che fare con qualcuno che non solo è umanamente irreprensibile ma, per giunta, uno scrittore, dotato quindi di una sensibilità non comune: BINGO. Per una volta che ha pescato nella massa, le è andata bene, ha trovato qualcuno che non sola ha una forma, ha anche una profondità, una sostanza, qualcuno di speciale. Potere dei social che ristringono i campi di ricerca, facilitando l’individuazione dell’elemento che si differenzia da tutti gli altri. In fin dei conti, però, questo scrittore cos’ha di tanto diverso dagli altri due personaggi? Come ci si può comprendere al volo con qualcuno che non puoi guardare negli occhi, di cui non puoi scrutare il viso, le espressioni, i gesti? Come ci si può affidare a qualcuno che si conosce solo da una o più conversazioni?  E soprattutto, qual è la differenza tra la massa che è fuori dalla porta di casa nostra (o anche dentro) e quella al di là di uno schermo? Non sono entrambe amorfe, opache, malvagie? Se così fosse, bisognerebbe diffidare anche di quella virtuale. Nives va al bar solo a determinate ore del giorno per non imbattersi in conoscenti, rinuncia alle serate con gli amici, non siede a tavola con sua madre preferendo mangiare da sola: che senso ha se poi fruga ossessivamente nel web, nella speranza di trovare qualcuno con cui parlare?  Sembra, infatti, che chi conosci in rete è sempre molto più speciale di chi ti capita d’incontrare per strada, sull’autobus, al supermercato. Finalmente c’è una persona disposta ad ascoltarci, con cui parlare per delle ore, alla quale descrivere le proprie passioni, paure, sogni, speranze; ed il virtuale interlocutore dall’altro lato fa lo stesso, una comunione di anime, di pensieri si realizza, finalmente. Non siamo più inibiti, non temiamo di essere rifiutati, ogni paura si dissolve, ecco abbiamo trovato la strada per la felicità. Ma qual’ è la differenza con le persone che incontriamo al supermercato, alla posta, sull’autobus?Nessuna,perché  colui o colei che intercettiamo su Internet è  proprio la persona che era in fila alla posta o seduta accanto a noi sull’autobus.

Spesso penso che questa società, in particolare le  generazione più giovani, non abbiano mai smesso di giocare. Quando era una bambina giocavo con le barbie, inventavo storie in cui mostravo un’insolita audacia nella scelta delle azioni che volevo le bambole compissero, proiezioni del futuro che avrei desiderato. Oggi, che siamo adulti, continuiamo a giocare non con le barbie, ma con noi stessi attraverso le molteplici identità che scegliamo di assumere sulla rete, che rispecchino al meglio ciò che siamo o che vorremmo essere. Agendo sempre meno. Il finale del racconto si riscatta rispetto ad un quadro così decadente, restituendo Nives alla vita vera, facendole conoscere un ragazzo in carne ed ossa che s’innamora di lei e che si mette in discussione per averla. Discutibilissime le modalità attraverso le quali questo cambiamento avviene, il tutto si svolge in un eccesso di semplificazione e stereotipizzazione: all’improvviso arriva un uomo dalle qualità ultraterrene, mortificato nella sua natura umana dall’esasperazione delle virtù attribuitegli, che salva la giovane protagonista che, in un’illuminazione, data la durata del suo cambiamento pari alla velocità della luce, si redime. Ma non si tratta di una e vera propria redenzione, Nives non sceglie deliberatamente di uscire dalla condizione di isolamento , se questo accade è solo grazie all’intervento di una forza esterna, provvidenziale. In fin dei conti questo atteggiamento indolente è perfettamente coerente con il rifiuto di mettersi in gioco che accompagna la protagonista per tutto il racconto. Una redenzione frutto della sua iniziativa avrebbe significato un’altra storia, un altro personaggio, un’altra autrice.

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