Diario di una bisbetica non domata

Diario di una bisbetica non domata
Diario di una bisbetica non domata 5 1 Anonymous

Maria- Cristina Petrucci

Le primissime pagine di Felicità Nuda promettono bene, Virginia Corbelli, protagonista del romanzo, quando è ancora una bambina, manifesta una curiosità che intenerisce senza sfociare nel banale e nel patetico; colpisce l’immagine della penna a sfera che attira la sua attenzione, interrogando insistentemente la mamma sul contenuto, metafora che annuncia una delle caratteristiche di spicco della protagonista: andare oltre le apparenze delle cose e delle persone per coglierne la sostanza. Dopodiché, nelle pagine successive, solo in qualche altra parte, l’autrice si sofferma su un particolare e lo sviluppa. Prende poi il sopravvento una narrazione generica e sommaria, sia per quanto riguarda le tematiche affrontate, sia rispetto ai personaggi coinvolti, inclusa la protagonista. Il romanzo, se fosse un quadro, apparirebbe privo di prospettiva; sembra piuttosto un album di foto verbalizzato, che riunisce diversi momenti della vita di una persona, senza alcun legame, basato piuttosto su una suggestione emotiva legata a quel determinato episodio, senza provocare alcuna ripercussione sulla vicenda successiva. Prevale il richiamo implicito al genere diaristico, che si caratterizza per una progressione cronologica e non per una selezione affettiva che comporterebbe invece un’alterazione del tempo nella sua linearità e soprattutto l’affermazione della dimensione dell’immaginazione, vale a dire l’elaborazione dei dati di un’esperienza affettiva. Reinventando il tempo, stabilendo un nuovo rapporto tra passato e futuro, che non si fondi sulla causa-effetto, ma su esigenze legate alla propria soggettività, nasce una nuova dimensione che è quella del racconto vero e proprio. L’enumerazione di fatti accaduti, supportati da qualche immagine, piuttosto retorica (prevale l’utilizzo della metafora), non danno al romanzo quella tridimensionalità che gli permetterebbe di distaccarsi dalla realtà, sulla quale naturalmente si fonda.

Altrettanto i personaggi subiscono lo stesso processo di semplificazione. L’autrice, di Virginia Corbelli, sembra più interessata a mettere in evidenza la condizione di vittima, pretende a tutti i costi che sia il capro espiatorio di un mondo cattivo, in una lotta stabilita a priori, in cui la giovane donna si sacrificherà e sarà sacrificata a causa della natura malvagia dell’umanità, ruolo che ad oggi è riconosciuto solo a qualcun altro, ben noto a cristiani e non. La spoglia così della dimensione umana, di un percorso che ne delinei sì i pregi, (è indubbio che esistano persone dalla spiccata sensibilità), ma che ne sottolinei anche i difetti, non quelli dovuti all’ingenuità, ma ad una natura crudele che appartiene a tutti. Il discorso non è tanto essere buoni o cattivi, ma la scelta che ognuno di noi fa, quotidianamente, tra due possibilità di stare al mondo che appartengono all’uomo in generale. Tutto ciò a svantaggio della povera Virginia, che risulta presuntuosa, egoista, saccente, egocentrica e sempre pronta a giudicare. Se l’intento era di comunicare un messaggio di positività, è stato ottenuto l’effetto contrario, personalmente Virginia non mi ha suscitato alcuna simpatia. Vittima del suo stesso narcisismo, rischia di risultare poco credibile, in primis, agli occhi del lettore e poi ad alcuni degli stessi personaggi, che smontano un po’ della sua convinzione e soprattutto portano alla luce la debolezza di una persona che non accetta che a qualcuno possa non piacere. Gli altri personaggi fanno solo da cornice, alla stregua di una corte di servi, contribuendo ad esasperare la celebrazione della magnifica e divina immagine della protagonista; non presentano alcuna particolare caratteristica, sono figure sbiadite ed anonime, che fungono da corollario, assolutamente inutili, data la spregiudicata espansione dell’ego del personaggio principale.

La perseveranza della Petrucci, a fare di Virginia Corbelli una martire, sminuisce importanti tematiche che vengono solo sfiorate. Prima di tutto esiste una sproporzione nelle reazioni di Virginia, rispetto ad alcune esperienze drammatiche che l’hanno segnata. Se la prima delusione amorosa le provoca addirittura una profonda depressione che cambierà la sua persona, la violenza che subirà più avanti, passa quasi inosservata e si conclude con lei che si rialza le mutandine e pensa che forse era meglio indossare i pantaloni; inoltre, l’accento che viene posto sulla perdita dell’innocenza che quell’episodio ha generato, provoca una ridondanza perché Virginia già ha perso l’innocenza, quando il suo primo fidanzato la costringe a fare sesso e lei accetta, pur di non perderlo. Ancora una volta la Petrucci vuole a tutti i costi che la giovane risulti un’ingenua, inesperta, come se avesse vissuto sotto una campana di vetro fino all’attimo prima. Senza voler entrare nel merito di una questione delicata, quale è la violenza sulle donne, tra le cause principali dello stupro non ci sono certamente l’ingenuità o l’indossare una gonna, sappiamo bene che intervengono fattori esogeni alla vittima, dovuti ai disagi del carnefice più che ai limiti propri della donna. Mi sarei aspettata che l’autrice trattasse l’argomento con maggiore profondità, attenzione, sottolineandone la complessità. Si può bypassare sulle altre tematiche, come la delusione amorosa appunto, l’insicurezza, il matrimonio, ma non sulla violenza e sulla diversità. Tematica che viene affrontata quando Virginia è ricoverata in una struttura per persone con disagi mentali, le quali l’aiuteranno a superare il brutto momento: bellissima immagine ma anche lì avrei cercato di evidenziare degli aspetti meno stereotipati, più smarcati dal processo di marketing di cui spesso sono protagoniste persone con disagi. Il compito dello scrittore è di cogliere quelle sfumature della realtà che il resto della società non è in grado di vedere, ponendole alla sua attenzione, anche se scomode e politicamente scorrette. Se ripete quanto ormai è diventato ritornello nella società di massa, il suo contributo è abbastanza limitato.

Ho apprezzato tantissimo l’invito di Maria Cristina Petrucci, di cui colgo l’estrema e disarmante sensibilità, ad amare le piccole cose, insomma la vita nella sua nudità, per quella che è. Ne emerge sicuramente il riflesso, chiaro, della dimensione privata dell’autrice, appagata e serena; una forza che sovrasta il romanzo. Presenza che però non permette mai alla storia di acquistare una sua autonomia, di seguire un percorso più naturale ed imprevisto; non le permette, soprattutto, di separare la visione dell’autrice da quella dei personaggi, in particolare la protagonista, lasciandole esprimere una personalità che non sia l’insieme di quello che secondo lei dovrebbe essere qualcuno, ma che “sia”, semplicemente, nei pregi e nei difetti, preservandone la naturalezza. Consiglio estendibile all’intero romanzo.

Meglio Cabernet o Carménère?

La sommarietà, la sintesi, l’effetto ridondante che caratterizzano Felicità Nuda, in alcuni punti del romanzo si dileguano. E neanche a dirlo la profondità, l’originalità, unite ad un linguaggio variegato a metà strada tra il poetico ed il tecnico, vengono raggiunti in contesti in cui il cibo predomina. In particolare, in due episodi, che mi sono parsi come distaccati dal resto del romanzo, la protagonista risulta meno ostile, più spontanea, paradossalmente più ingenua, secondo le originali intenzioni della scrittrice; si tratta di uno dei capitoli iniziali, riguardanti l’infanzia di Virginia e uno degli ultimi, quando la giovane incontra un nuovo amore. In “Cosa c’è dentro?” e in “Cabernet Franc” ho trovato molta più fantasia, immaginazione, che altrove; in quest’ultimo, soprattutto, ho apprezzato, attraverso la rivelazione dell’Omone a Virginia del vino Caménère spacciato per Carbnet Franc, una scelta di descrivere un momento di conoscenza, di scoperta, di promessa di un futuro insieme, raccontato in migliaia di pagine di letteratura da secoli, ben calcolata ed efficace; restituendo al romanzo quell’attenzione al particolare e allontanandolo dall’impianto diaristico che lo ha caratterizzato per buona parte, una vera e propria parentesi di poeticità. La scrittrice sembra lasciarsi andare alla sperimentazione, ad una maggiore autenticità ed istintività, più libera dall’idea del “come dovrebbe essere” che ha reso l’opera grezza, scarsamente lavorata, sovraccarica d’informazioni poco utili ai fini del romanzo che dovrebbe invece consegnare al lettore una visione sempre nuova di un evento che si ripete continuamente nella vita dell’uomo. L’altro capitolo, “Cosa c’è dentro?” ha come protagonista la zia Delfina, che sebbene rispecchi la saggezza e la serenità dell’età senile, allo stesso tempo è una donna dolcemente severa, priva di ogni forma di leziosità, senza filtri, quasi rude, che con la sua ricetta delle tigelle anzi delle crescenti, preparate seconda l’antica tradizione, contrasta il movimento rapido e frettoloso del tempo che sollecita la diegesi del romanzo, privandolo di un vero e proprio piano narrativo. La dilatazione del tempo che riflette la lenta preparazione delle foccacine, si arricchisce di particolari che offrono al lettore la possibilità di elaborare una partecipazione emotiva, di entrare in contatto con i personaggi, di riconoscersi in loro, ma soprattutto ciò che gli viene restituito è il diritto ad immaginare la scena, di ricostruirla nella sua mente.

Non vi riproponiamo quegli stessi piatti ma altri, data la varietà e ricchezza della cucina dell’Emilia Romagna, terra bellissima. Omaggiamo Reggio Emilia, città d’origine di Maria-Cristina con il famoso Erbazzone, omaggio non solo alla città ma anche alla tradizione contadina attraverso cui celebriamo quella ricerca della semplicità, nelle piccole cose, che è alla base del romanzo. Ragion per cui abbiamo cucinato un altro piatto che ha origini nel mondo rurale: gli strozzapreti. La versione della nostra cuoca, fedele all’impasto originale, prevede come condimento una crema di piselli con pancetta e robiola.

Chiuderei con un’esortazione a lasciarci guidare più dall’immaginazione e meno da condizionamenti esterni, altrimenti il bello della letteratura e della cucina si esaurirebbe.

Erbazzone

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Ingredienti

-2 confezioni di pasta sfoglia
-250 gr di spinaci
-250 gr di bieta
-1 porro tritato
-1 spicchio d’aglio
-80 gr di lardo
-2 cucchiai di olio olio evo
-sale
-pepe
-parmigiano

Procedimento

Lavare e sbollentare le verdure, in una padella sciogliere il lardo insieme all’olio a fuoco basso, aggiungere l’aglio e il porro e fare appassire, togliere l’aglio e aggiungere le verdure, il sale e il pepe, fare insaporire e lasciare intiepidire, aggiungere abbondante parmigiano e amalgamare. Foderare uno stampo con la prima sfoglia, riempire con le verdure e coprire con l’altra sfoglia, spennellare con un tuorlo e infornare in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti circa.

Strozzapreti in salsa di piselli con pancetta croccante e robiola

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Ingredienti

-250gr di Strozzapreti
-200gr di piselli
-125gr di pancetta
-una cipollina
-robiola
-sale q.b.

In una padella mettere a rosolare la cipolla tagliata sottile e l’olio, aggiungere i piselli, allungare con un po’ di acqua e lasciar cuocere a fuoco moderato, intanto tagliare a pezzetti non troppo doppi la pancetta. Quando i piselli saranno cotti passarli con un frullatore a immersione fino attenere una crema. Intanto cuocere gli Strozzapreti e, nella padella precedentemente utilizzata per i piselli, far cuocere la pancetta fino a renderla croccante. A questo punto unire la crema alla pancetta, scolare la pasta e amalgamare il tutto. Servire la pasta con una pallina di robiola sopra.

 

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